Saturday, November 3, 2018

E ora?

Marco Pannella è morto il 19 maggio del 2016 all’età di 86 anni dopo qualche mese di ritiro domestico e alcuni anni di progressivo peggioramento delle sue condizioni psico-fisiche. L'elaborazione del lutto è un’esperienza personale e, con tutto quel che ciò comporta, attiene alla dimensione emotiva dell'individuo. Certo, nei casi in cui l'“oggetto relazionale” del lutto è un personaggio pubblico, il "personale" diventa "politico", ma le implicazioni psicologiche del singolo non possono collettivizzarsi al punto da prendere il sopravvento sulla realtà.

La scomparsa di Pannella sembra esser diventata il motivo (ri)fondante della politica radicale, anzi Radicale con la "R" maiuscola. C'è chi ne sente la mancanza, chi l'assenza, chi non vedeva l'ora, chi ne recupera le citazioni più sconosciute, chi sbertuccia gli slogan più noti, chi tappezza i canali social con foto rubate o immagini storiche, chi lo usa come arma fratricida, chi se ne sbatte altamente. Chi ne ricorda i momenti duri, chi l'umanità e la generosità, chi preferisce il Pannella abruzzese chi quello transnazionale, chi quello degli albori chi quello della soffitta, chi fa emergere i propri o altrui odii, chi pratica ipocrisie o millanta ricordi, chi, a un certo punto, lo voleva quasi reincarnato nei gabbiani che non smettevano di occupare gli abbaini della sua soffitta dietro Fontana di Trevi. Insomma un caos molto umano e, se Pannella fosse ancora vivo, magari anche foriero di creatività, sol che Pannella purtroppo non c'è più, e questo è un dato di fatto che occorre tener bene a mente per il futuro della politica radicale.

La morte di Pannella, almeno per me, non "sembra ieri". Un po' perché il "mio" Pannella non era più lui dal 2011, un po' perché le mie elaborazioni dei lutti sono, magari per un superficiale ed egoistico riflesso auto-difensivo, veloci. La psichiatra svizzera Elisabeth Kübler Ross, considerata la fondatrice dell'approccio psicotanatologico all'elaborazione del lutto, ha teorizzato cinque fasi di questo complesso processo ma le inquadra comunque in un lasso temporale definito intorno all'anno.

I primi mesi senza Pannella sono stati mesi di grandi - prevedibili, se non previste o ricercate - rotture tra chi ha "subito" il lutto. Contrasti che hanno portato a una profonda revisione di cosa possa, debba o voglia essere la politica Radicale e di chi sia titolato a possa esser all'altezza dell’abusato motto "fai quello che devi, accada quello che può".

Far qui il catalogo di chi abbia detto o fatto cosa, come, con chi e perché sarebbe cosa (forse) utile ma magari poco opportuna a conclusione di un libro di memorie personali. Men che meno mi par utile interrogarsi sul "cosa avrebbe detto" o "cosa avrebbe fatto" Pannella relativamente alle attualità politiche italiane e mondiali. Eppure se ne son sentite di tutti i colori. C’esta la vie.

Per anni chi ha scritto su Pannella l’ha descritto come narciso, mangiatore di figli, egocentrico, istrione, guitto, guru eccetera. Ma contrariamente a quanto questi pannellologi abbiano messo in fila, Pannella non era dedito al culto della (propria) personalità, se così fosse stato infatti si sarebbe occupato, tra le altre cose, di lasciare dettagliate istruzioni per il "dopo di lui" per individuate priorità, metodi e meriti per la tutela della sua eredità personale e politica e il suo buon nome e/o immagine. Invece non ha lasciato un testamento né disposizioni anticipate di trattamento. Ha scelto di non scegliere offrendosi al riciclo e al riuso di chiunque. Molto pannelliano a pensarci bene.

Sapendo di non star bene da diverso tempo, e non avendolo comunicato pubblicamente come invece aveva fatto Emma Bonino quando le fu diagnosticato un tumore, Pannella, in piena e totale libertà, ha lasciato quelli che l'hanno seguito negli anni, e fino agli ultimi giorni, di fronte alle proprie responsabilità. Certo ha lasciato il patrimonio a uno solo, ma questo ai miei occhi è un dettaglio politicamente irrilevante.

Pannella non era un pedagogo, non si preoccupava di formare discepoli, faceva politica radicale, quindi liberale, nonviolenta e riformatrice. Sicuramente aveva pesanti ascendenti su chi lo frequentava, ma come si "riuscisse a dar corpo" alle idee, sue o di altri Radicali, era lasciato alle individualità che s'incamminavano con lui o il Partito Radicale verso il perseguimento di obiettivi precisi. Tra questi sicuramente non c'era l'ottimizzazione delle risorse o quella dei talenti. Nessuno è perfetto.

Però a tutto c'è, anzi ci deve essere, un limite. Il futuro della politica Radicale non può esser rivolto al passato né al mantenere vivo un ricordo tanto indelebile quanto ineludibile come quello di quel che è stato Marco Pannella per il Partito Radicale e la storia politica italiana, europea e internazionale. L'agenda politica globale è piena di riscaldamenti tellurici, big data, intelligenza artificiale, blockchain, bitcoin, microdosing, genome editing, pulizie etniche e discriminazioni di ogni genere e specie da prendere in considerazione con analisi e proposte radicali urgentemente.

A me Pannella non manca, e non lo dico perché mi sia “emancipato” o “affrancato” politicamente, non mi manca perché sono abituato a far tesoro delle reali presenze più che rimanere imbrigliato (o imbrogliato) dalle assenze favoleggiando di metafisiche compresenze.

La morte di Pannella è stata un "bomba libero tutti". Dall'inizio della fase finale della sua malattia, la dirigenza radicale non si è riunita intorno al Partito, alle sue lotte e a quello che i Radicali hanno rappresentato in Italia e nel mondo. Malgrado per qualche mese ci sia stato chi ha ripetuto meccanicamente "spes contra spem" uno degli ultimi slogan pannelliani , ognuno è andato per la propria strada ritenendo di dover continuare a fare quello che aveva fatto in passato - anche niente o il contrario di quello che Pannella chiedeva.

Sebbene non siano mai mancati momenti di aspro confronto interno, anche pubblico, su tutto lo scibile politico e umano rappresentato dalla cosiddetta “galassia radicale”, dal congresso del 2011, l’ultimo a cui Pannella ha partecipato, nessuno ha ritenuto che fosse prioritario riflettere sul perché, in tutti questi anni e a fronte a importanti obiettivi raggiunti, il Partito Radicale in quanto tale non fosse mai riuscito a diventare un soggetto politico realmente transnazionale con un numero significativo di iscritti e dirigenti non italiani e una costante presenza attiva di parlamentari di ogni appartenenza partitica e provenienza geografica.

Non ho partecipato al 40esimo congresso del Partito Radicale perché, a differenza di quanto sarebbe stato opportuno fare all'indomani della scomparsa dell’inventore del di quel modello e modo di far politica, e cioè prendersi tutto il tempo necessario per riflettere profondamente sui successi politici e gli insuccessi "partitici", si è voluto corrispondere immediatamente a una richiesta di convocazione straordinaria promossa dal Tesoriere Maurizio Turco e accolta da un terzo degli iscritti al partito che, Pannella vivo, non era mai stata presa in considerazione. Della dirigenza solo Emma Bonino non andò. Le sue motivazioni non son state messe nero su bianco. Le mie sono che con questo modo di fare il Partito si pone agli antipodi del modus operandi che mi aveva fatto avvicinare alla politica.

Era necessario convocare un congresso, ma la sua organizzazione, pur necessaria e urgente, non aveva motivo d'esser immediata. La fretta è sempre cattiva consigliera, e c’erano decine di modi di dire pannelliani che avrebbero potuto suggerire un saggio modo di procedere. E, se fosse in effetti vero che i “mezzi prefigurano i fini”, la convocazione frettolosa del momento della presa delle decisioni per il futuro di un’organizzazione politica da parte di un soggetto politico in lutto non poteva che prevedere il cupio dissolvi.

Partecipare a un congresso per me non ha mai voluto dire fare politica - anche perché, molto spesso, i più formidabili animatori di quei consessi il giorno dopo scompaiono nel nulla - ma senza un momento di confronto pubblico su snodi politici e aspetti organizzativi, senza individuare priorità perseguibili e capire su quali gambe e spalle si possa caricare quel fardello la politica non c'è. C’è agitazione propagandistica fine a se stessa.

Nei suoi 70 anni di militanza, Pannella ha fatto propri, usato, rilanciato e interpretato simboli di ogni genere e provenienza. Ma ai richiami, alle allusioni e alle evocazioni, Pannella faceva sempre seguire un progetto politico che tenesse insieme metodo e merito, avanzava proposte che fossero capaci di coinvolgere, magari solo per un brevissimo tratto di strada, anche il peggior delinquente o avversario politico perché, laicamente, anteponeva obiettivi di riforma generale a interessi particolari. Se queste non erano all’altezza, si cercava il modo migliore per affinarle. Questo approccio di “pensiero e azione” valeva anche per le dinamiche di partito.

Dalla sua transnazionalizzazione, avvenuta al XXXV congresso di Budapest nel 1989, il Partito Radicale ha tenuto quattro congressi e, con forse un paio d'anni di eccezioni, non è mai riuscito a far vivere pienamente il proprio statuto. Eppure non c'è stata riunione, anche negli ultimi anni, in cui non si siano sentiti riferimenti aulici allo Statuto, un documento che non conosce probiviri, che consente l'iscrizione a chiunque e che prevede, tra le altre cose, un presidente d'onore, un segretario, un tesoriere, un consiglio generale composto da 50 membri - metà eletti dal congresso e metà da eleggersi tra i "legislatori" iscritti - e che nel 2002 fu modificato per creare un organo chiamato “senato” che raccoglieva le cosiddette "associazioni costituenti" il partito.

Secondo quel venerato Statuto, il congresso andrebbe convocato a cadenza fissa ogni due anni. Dal momento dell’effettiva transnazionalizzazione son stati convocati congressi nel 1992-3, nel 1995, nel 2002 di nuovo in due sessioni e nel 2011 in altrettante due parti, poi quello a Rebibbia dell’agosto 2016.

Fino alla morte di Pannella ci si poteva dichiarare “radicali” se iscritti al Partito Radicale. A poco importava condividerne le idee o le battaglie, senza la tessera non c’era il “diritto” all’appellativo. Naturalmente non era scritto da nessuna parte, semplicemente lo aveva stabilito verbalmente Pannella. E, lui vivo, aveva un senso. Oggi non più.

Per anni all'organizzazione di un soggetto politico transnazionale e transpartitico è sempre stata privilegiata la lotta politica - e parlamentare - nazionale, internazionale, nonviolenta, dentro e fuori le istituzioni. Una scelta che per tre decenni, grazie a campagne specifiche che negli anni si sono organizzate e strutturate in associazioni autonome ma non indipendenti, ha aperto e chiuso uffici, fatto iscrivere parlamentari, membri di governo, intellettuali, giornalisti e militanti dei diritti umani. Alcune di quelle fasi sono raccontate in queste pagine.

Mi sono iscritto al partito radicale per la prima volta nel 1994 con la convinzione, comunicata nella lettera all'allora segretaria Emma Bonino che si trova in esordio di queste memorie, che le battaglie transnazionali contro la pena di morte, per la creazione dei Tribunali ad hoc per la ex-Jugoslavia e il Ruanda, l'istituzione di una Corte Penale Internazionale e l'antiproibizionismo - oltre che una lingua internazionale - fossero obiettivi politici non solo condivisibili ma concretamente perseguibili da un soggetto politico nuovo che guardava al futuro con proposte di governo di fenomeni enormi.

Da allora, con la sola eccezione di Emma Bonino, credo di esser il militante, dirigente e parlamentare radicale che maggiormente ha avuto l'onore e l'onere di girare il mondo per tentare di raggiungere gli obiettivi fissati nelle mozioni dei primi anni Novanta partecipando a decine di missioni e conferenze in mezzo mondo per le associazioni radicali Non c'è Pace senza Giustizia e Nessuno Tocchi Caino, le attività della Lega internazionale Antiproibizionista o quelle della Esperanto Radikala Asocio e, più tardi, dell'Associazione Luca Coscioni. Allo stesso tempo, e per quasi 20 anni, ho anche coordinato alle Nazioni unite di New York, Ginevra e Vienna le attività del Partito Radicale - l’unica organizzazione non-governativa che in due occasioni ha sconfitto uno stato membro che la voleva punire per il suo sostegno ai nemici di governi autoritari. Sono stato accusato pubblicamente di aver distrutto il Partito Radicale.

Per me il Partito Radicale, e le sue associazioni costituenti, con le loro iniziative, pregi e difetti, non sono state un'evocazione di una politica in potenza, sono state una mia occupazione quotidiana per un ventennio. Ho visto che cosa può esser fatto e come, oltre che cosa non è mai stato fatto e perché non poteva esser fatto. Ho anche visto chi si è impegnato per provarci.

Per anni ho partecipato convintamente anche all'esercizio retorico del recupero della speranza che l'unione laica di forze all'interno di un partito transnazionale e transpartito - forze che spesso laiche non erano - potesse suscitare qualcosa di nuovo, di riformatore, di liberale. Sicuramente sono più i casi in cui quegli auspici non si son verificati per come proposti che il contrario, ma son convinto che senza quei tentativi, anche quelli non andati a buon fine, l'Italia, e altre zone del mondo che si aprivano alla democrazia dove il Partito Radicale è riuscito operare, oggi vivrebbero in condizioni peggiori.

Le piegature pannelliane delle regole interne, come quelle della lingua italiana, e anche di qualche fase della storia patria, avevano sempre obiettivi ulteriori, a volte più grandi altre meno importanti, ma si trattava di obiettivi che erano frutto di una visione d'insieme che veniva da lontano e che alla fin fine non faceva mai "perder tempo" anzi, lo facevano guadagnare, nella speranza che, assieme alle lotte crescesse anche il partito, il Partito Radicale Transnazionale e Transpartito.

Credo che il Partito Radicale, a cui non sono iscritto dal 2017, abbia bisogno di gente che s'impegni su qualcosa di chiaro e di perseguibile, che s'adoperi per reperire risorse umane e finanziarie, che privilegi la politica al "resto" - spesso anche all'organizzazione della propria esistenza. Ma credo anche che insistere con la necessità di far vivere un soggetto politico transnazionale e transpartitico senza interrogarsi sul perché non sia stato possibile che questo sia esistito per come era stato immaginato dal suo ideatore in fasi storiche in cui tanto Pannella quanto Bonino erano al massimo della forma fisica e politica e si contavano molti parlamentari "radicali" eletti in Italia e a Bruxelles, sia una nuova prassi che fa economia della teoria. E della realtà dei fatti.

Pannella piuttosto che vincere voleva convincere. Con la sua morte è finita la finzione di promuovere un simulacro di soggetto politico ritenendolo l’unico capace di far politica organizzata con metodi e meriti all’altezza del compito. "Essere all'altezza" di una storia, una tradizione, una teoria della prassi, dovrebbe prendere il posto del motto "essere speranza".

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