Friday, February 8, 2019

introduzione

Chiaramente questo libro, proprio come il Partito Radicale e molte delle conquiste politiche e culturali dell’Italia, non sarebbe stato possibile senza Marco Pannella. Per il quale non saranno mai sufficienti tutte le parole - e parolacce - che uno può immaginare per ringraziarlo come si deve.

Ho incontrato Pannella per la prima volta nel marzo 1994, al funerale del militante radicale fiorentino Andrea Tamburi trovato morto a Mosca in circostanze mai chiarite. La seconda, quella in cui finalmente ci parlammo, fu l’anno successivo durante la campagna per l'elezione del Sindaco di Firenze dove i radicali, assieme al Partito Popolare Italiano e Forza Italia sostenevano il sindaco uscente, il socialista Giorgio Morales. In mancanza di meglio, ero stato piazzato capolista della Lista Pannella.

Poco prima di salire sul mega-palco in Piazza della Repubblica (ricordo ancora com'ero vestito) Pannella salutò Vincenzo Donvito, il coordinatore dei radicali fiorentini, dicendogli “e questo chicazz'è?!”. Provate voi ad aprire un comizio di Pannella in generale, provate poi a farlo dopo aver udito di straforo questo scambio… Fortunatamente, non essendo timido, il comizio fu aperto sena intoppi e, grazie a Pannella, andò alla grande. Naturalmente non facemmo eletti.

Rividi Pannella qualche settimana dopo al funerale di Alex Langer alla Badia Fiesolana, ma non mi potei avvicinare per salutarlo perché la chiesa straripava e la sua orazione funebre era stata straziante.

Negli anni 2000 m’è capitato di accompagnare Pannella in missioni in Europa, Asia e Africa; dovunque e con chiunque fossimo era come se stessimo in una riunione di quelle in “saletta”, la situation room di via di Torre Argentina 76 dove tutti, anche l’ultimo arrivato, avevano la possibilità di dire la propria e trovare in Pannella un orecchio attento. Molto fumo, ma tanto tanto, ma anche molto arrosto.

Pannella parlava con tutti e, forse ancor di più, ascoltava tutti, riusciva a cogliere spunti anche nel commento di chi passava lì per caso. L’unica differenza tra le fumose riunioni romane e gli incontri in quelle missioni era che il tutto spesso avveniva in lingue che Pannella non parlava. Che fossero le udienze col Dalai Lama o le tre ore col premier cambogiano Hun Sen, passando per le decine di chiacchiere con militanti dei diritti umani tibetani, ceceni, uyguri, montagnards, hmong, khmer krom, sind, baluci, assiri, haredin, fino a meno esotici croati, albanesi o kosovari o qualche Lord britannico, mi sono trovato molto spesso a tradurre Pannella in inglese. Una volta, col Presiden dell’Open Society Institute Aryeh Neier, ci intrattenemmo per quasi due ore con Pannella che gli parlava il suo francese perché aveva saputo che la moglie del suo interlocutore era francese...

Difficile per alcuni da seguire in italiano, Pannella, quasi miracolosamente, era traducibilissimo nella lingua di Shakespeare. Bastava solo seguirlo attentissimamente con la stessa concentrazione che occorreva quando dettava lettere o comunicati stampa al telefono.

Agli interlocutori più sconosciuti Pannella non pareva mai un eccentrico o un folle, la sua fama di leader politico lo precedeva tanto a Washington quanto a Nouakchott, a Parigi come a Niamey, a Londra come a Tirana. Era - e resterà - la fama di qualcuno che viveva di e per la politica, spesso nutrendosi di null’altro che non fosse la speranza che col suo esempio rappresentava.
Tradurlo, spesso ripetendo le stesse cose, mi ha reso indelebili nella memoria alcune espressioni, oltre che il suono della sua voce. Anche se alle volte eravamo stanchi morti, o incontravamo inutili figuri, per me è stato un onore, più ancora che un onere, far conoscere a molti il verbo pannelliano.